Nell'inverno più caldo di sempre, invece, non faceva freddo.
La mia lettura frettolosa di Wikipedia mi aveva portato, per sbaglio, nella cattedrale luterana della città, una bella e sobria chiesa che sfoggia uno splendido organo a canne.
Il pastore, capendo che fossi un turista, mi ha chiesto se cercassi la cattedrale cattolica, la Chiesa di Cristo Re.
Gli ho risposto con un sorriso che ritenevo che Cristo non facesse poi tante differenze, ma che sì, visto che la messa cattolica era prevista mezz'ora prima (mio figlio ronfava intanto nell'appartamento sotto svariate coperte), mi sarei incamminato verso l'altra cattedrale.
Pochi minuti a piedi, una piccola collina.
Sulla sommità, appunto la Chiesa di Cristo Re.
Oltre la pioggia.
Era ancora buio.
La Messa inizia quasi subito, non ho tempo se non di notare che, se la cattedrale era molto bella e con un Cristo un croce molte particolare, sull'organo a canne vincevano, invece, indubbiamente, i luterani.
La Chiesa si riempie velocemente.
Tanti bambini e bambine e una sorpresa inaspettata.
Gli islandesi (forse, si dice, il popolo più ateo del mondo) non sono poi tanti.
C'è, invece, tutto il mondo, rappresentato anche nel clero, c'erano, forse una per continente, anche le suore di Madre Teresa di Calcutta.
Ci sono varie Afriche, certamente il Giappone, le Filippine, turisti da varie parti d'Europa, sento pregare in spagnolo, sottovoce.
A fianco mio, invece, un signore abbastanza anziano, ma imponente, che sembra proprio uscito da un film sui vichinghi.
Avendo studiato prima le Letture, seguo senza troppa fatica la Messa, cerco con gli occhi una statua di San Giuseppe e ascolto la celebrazione, presieduta da un anziano sacerdote islandese che scandisce le parole nella sua lingua madre.
Ho tutto il mondo intorno.
L'aspetto più bello, davvero, sono i bambini, le bambine, se ne vedono diversi mulatti o con gli occhi non completamente a mandorla, ma nemmeno occidentali.
Il segno del futuro, di un mondo che misura i confini, ma sa anche oltrepassarli, mischiarli, intrecciarli, anche alla "fine" proprio del mondo.
Ascolto il Credo e il Padre Nostroin islandese.
Pregare in una lingua lontanissima dalla propria è un esercizio particolare, un segno di Fede, di Fiducia piena, di abbandono alla Parola, nella Parola.
Arriva il momento della Comunione.
Un'altra sorpresa.
Qui si riceve il Corpo di Cristo solo da inginocchiati.
Il sacerdote mi guarda con profondità, pronuncia verso di me parole in latino.
Protendo le mani. Accolgo l'Eucarestia.
La Messa termina con tanto, tanto incenso e una Benedizione che non necessita di traduzioni.
Esco dalla Cattedrale di Cristo Re.
La prima sorpresa, gradita, è la Luce.
Si entra al buio la domenica a Messa in Islanda e si esce con la Luce.
Da Cristo Re, senza troppo fatica, si scorge, non lontano l'Oceano, con le sue grandi navi attraccate, purtroppo qualcuna da guerra.
Ma la sorpresa più grande è l'ultima.
C'è una campana nel giardino intorno alla cattedrale.
Mi avvicino, la spiegazione è in tantissime lingue, italiano compreso, devo essere importante.
Nel 1927 vennero consacrate, infatti, tre campane.
Una di questa, però, dovette subito essere sostituita, conteneva all'interno una crepa.
Fu, in tutta fretta, sepolta nel giardino della Chiesa, totalmente interrata, quasi ce ne si vergognasse.
La campana crepata è stata ritrovata, se ne era persino persa la memoria, meno di dieci anni fa, ed è stata ri consacrata nella festa di Ognissanti e posta di fronte all'ingresso della Chiesa, tutti ci devono passare, tutti la devono vedere.
La campana con la crepa ritrovata, rappresenta oggi, per i cattolici islandesi, un simbolo di: "protezione della Vita".
E' un segno bellissimo, che mi porto dentro, anche perchè il mio cellulare è scarico e non posso farne una foto.
"E terra e acqua e vento / Non c'era tempo per la paura.
Nati sotto la stella / Quella più bella della pianura.
Avevano una falce / E mani grandi da contadini
E prima di dormire / Un padre nostro, come da bambini.
Sette figlioli sette / di pane e miele a chi li do?
Sette come le note / Una canzone gli canterò.
"Francesco, ma come mai prima delle testimonianze, a pag. 391, hai messo questa canzone, è un errore?"
Quando, cinque anni fa, ho ricevuto questa telefonata dalla casa editrice, poco prima che il libro su Pippo Morelli andasse in stampa, ammetto di avere abbozzato un sorriso.
Questa stupenda canzone della band marchigiana dei Gang, dedicata alla vita e al sacrificio dei sette fratelli Cervi, non era un refuso, ma rappresentava qualcosa, per me, di intimamente importante.
Quella di Pippo Morelli e della sua famiglia è, infatti, una storia emiliana, come, in buona parte, la mia.
Affonda le radici, vale per tutta la mia terra, nella Resistenza partigiana, in uno spazio, come scrivono i fratelli Severini, nato: "sotto la stella, quella più bella della pianura".
Una terra delimitata dal grande fiume che ne congiunge le province e ne delimita il confine.
La mia generazione, adolescente nella metà degli anni Novanta del Novecento, è forse l'ultima ad essere cresciuta a contatto con la memoria viva della Resistenza, fosse essa rappresentata dai propri nonni o meno.
Ricordo come oggi i vecchi partigiani cristiani nel complesso dei Giardini di San Paolo a Parma mettere in ordine documenti e vecchie sedie, rispolverare quadri, racconti e memorie.
Tra quei partigiani, durante la lotta resistenziale, c'era anche mio nonno Anesio Finardi, scomparso prematuramente nel 1960, di cui ho racconti molti frammentati dei compagni di lotta, conosciuti superficialmente, come direbbero gli austriaci, "un attimo prima del Mezzogiorno".
Ecco, quella canzone dei Gang rappresenta la centralità dell'esperienza resistenziale della mia Emilia, certo un racconto spesso non sufficientemente plurale che ha oscurato per tanti decenni anche le proprie ombre.
E così, proprio nell'anniversario del sacrificio dei sette fratelli Cervi e di Quarto Cimurri, non è contraddittorio ricordare anche Giorgio Morelli, il partigiano "Solitario", fratello di Pippo. Il primo ad issare il tricolore nella Reggio Emilia liberata, cui, recentemente, la storica Marta Busani, ha dedicato una splendida biografia.
La nostra pianura, come cantano ancora i Gang, ci dice ancora oggi che: "i figli di Alcide non sono mai morti" ci fa commuovere in mezzo alla nebbia, anche alla neve, pensando a loro.
Ma ci restituisce anche le intense parole di Giorgio Morelli, tratte dal suo diario, scritte due giorni prima di morire, non per mano fascista, ma per mano comunista, una mano fratricida, in quello che sarebbe stato poi definito, pur tra tante strumentalizzazioni, il "triangolo rosso", a guerra ampiamente finita.
Scriveva il Solitario: "Ho una tristezza infinita nell'anima. Quasi un presentimento che debba avvenire qualcosa di inatteso, di acerbo. Forse questa mia giornata terrena potrebbe non vedere l'alba di domani. Non mi spaventa la morte. Mi è amica, poichè da tempo l'ho sentita vicina. (...)
Nell'istante prima del mio tramonto, mi prenderebbe una sola nostalgia, quella di aver poco donato. Oggi la mia confessione ultima sarebbe questa: l'odio non è mai stato ospite della mia casa. Ho creduto in Dio, perchè la sua fede è stata la sola e unica forza che mi ha sorretto".
Un'eredità non semplice da portare per Pippo, specialmente nel suo territorio.
Ha testimoniato nel libro Massimo Storchi:
"Fu Morelli a chiedermi se avessi scoperto qualcosa di più sul fratello Giorgio. Il clima a Reggio Emilia non era semplice, ma lui non aveva quel più di astio, spesso visceralmente anticomunista, comprensibilissimo e piuttosto diffuso tra i familiari delle vittime della violenza politica comunista nel dopoguerra. Quello che Morelli cercava, con grande attenzione e sensibilità, era di conoscere meglio quello che era avvenuto al fratello, il contesto socio-politico e, ovviamente, anche le responsabilità. Pippo Morelli era stato capace di rielaborare il lutto. Non gli interessava il martirologio, ma un confronto aperto, maturo. Gliene sono sempre stato riconoscente".
Forse è per questo che dalla pianura, anzi dal grande fiume di mio nonno Anesio, che era di Colorno, le note e le parole si incamminano verso i monti, attraverso quei sentieri partigiani che Pippo Morelli contribuì a riscoprire proprio all'inizio degli anni Novanta del Novecento, da vice presidente del Parco del Gigante.
Me li immagino, nonno Anesio, Giorgio, Pippo, i sette fratelli, Quarto Cimurri, incamminarsi verso altre terre emiliane che hanno conosciuto, contemporaneamente, un'immane tragedia e poi un sogno, infinito, certo a volte contraddittorio, ma genuino, di Pace e Giustizia.
Sì, non è breve, la strada della Pianura verso le Querce di Montesole.
Ma io me li immagino davvero, insieme, tutti quanti camminare in salita e incrociare lo sguardo del cielo insieme all'esile figura di Don Giuseppe Dossetti che li benedice, con i loro canti...
"E in quella pianura / Da Valle Re ai Campi Rossi
noi ci passammo un giorno / e in mezzo alla nebbia
ci scoprimmo commossi.
Sette figlioli sette / di pane e miele a chi li do?
Sette come le note / Una canzone gli canterò.
E anche io, oggi da Reykjavjk, guardo i monti appena spruzzati dalla neve del 28 dicembre di questo strano 2025.
L'inverno più caldo, qui in Islanda, da sempre, con punte, incredibili e inquietanti, fino a venti gradi sopra lo zero, nei fiordi orientali.
Commosso, penso, da lontano, al mio grande Fiume e ad una lotta per la libertà e la democrazia che molto è costata, ma in cui tantissimo, pur tra sanguinanti contraddizioni, si è donato ed amato.
Soprattutto nel corso degli ultimi
dieci anni, in particolare da quando nel paese parmense di Langhirano (si,
quello dei prosciutti…) mi è stato conferito per il mio libro, “Sapere,
Libertà, Mondo. La strada di Pippo Morelli”, il premio letterario: “Sapori del
giallo” (si c’è anche una sezione di saggistica…) ho approfondito, talvolta
anche con i corsisti presso il Centro Studi Nazionale Cisl di Firenze, il
percorso, importantissimo, della democratizzazione e della sindacalizzazione
della polizia in Italia.
Il premio, mi è stato consegnato da Luigi Notari, figura significativa, a livello nazionale, proprio di questo percorso di estensione della cultura democratica nel nostro paese.
Un percorso,
patrocinato, forse più che dalle confederazioni, dall’Flm (il potente sindacato
unitario dei lavoratori e delle lavoratrici metalmeccanici/che) e che si
sviluppò, curiosamente, in parallelo con la sindacalizzazione dei calciatori.
Una sindacalizzazione, quella dei calciatori, anch’essa, almeno all’inizio, in rapporto, in questo caso, in particolare con
la Federazione Cgil Cisl e Uil, ma che vide Gianni Rivera e soci, intraprendere
ad un certo punto, anche comprensibilmente, percorsi del tutto extraconfederali.
Tornando alla polizia,
e all’uscita dai difficili anni Settanta del Novecento, contrassegnati, come
ben ricordano nel loro bellissimo spettacolo teatrale Mario Calabresi,
Benedetta Tobagi e Sara Poma, da “terrore e diritti”, il percorso che ha
portato alla nascita del Siulp e al ribaltamento della legge che vietava, in
Italia, la sindacalizzazione della polizia, è stato non facile, ma democraticamente
importantissimo.
Come ha ben rilevato
Michele Ainis in un suo testo sul sindacato che affronta la questione della
sindacalizzazione democratica e della smilitarizzazione della polizia, (“Sindacati, autonomia, imparzialità”):
“Lo
Stato, diceva Max Weber, ha il monopolio della forza legittima. Ma in
democrazia deve usare la forza per garantire le libertà dei cittadini, non
certo per opprimerli. E questo il lascito del costituzionalismo, inaugurato
dalle Carte rivoluzionarie di fine Settecento. Da qui, allora, una domanda:
come può la macchina statale proteggere i diritti, se non li riconosce al
proprio interno?
La risposta si trova scritta nella legge 1 aprile 1981, n.
121, che ha avviato il processo di democratizzazione della Polizia di Stato.
Attuando, sia pure con trent'anni di ritardo, un principio costituzionale.
"L'organizzazione sindacale è libera", dichiara infatti l'articolo 39
della Carta repubblicana. Ma in precedenza i sindacati, nel cuore pulsante
dello Stato, non erano liberi, bensì vietati. Ora non più: l'articolo 82 di
questa legge enuncia i diritti sindacali delle Forze di polizia».
Nel corso degli Anni
'70 sull'onda della crescente sindacalizzazione della società italiana, scrive
ancora Ainis - i movimenti democratici rivendicativi di spazi di libertà
finirono per coinvolgere anche le forze armate e, in particolare modo, la
Polizia per la quale si richiedeva oltre alla smilitarizzazione, anche il
riconoscimento della rappresentanza sindacale.
Sotto questo punto di
vista la legge 121 ha rappresentato davvero ulteriore tassello nel processo di
democratizzazione dell'Italia: fino a quel momento, infatti, il sindacato
restava escluso del tutto dalla struttura militare della pubblica sicurezza.
«L'importante riconoscimento della libertà sindacale per il personale della
Polizia di Stato – affermava il prefetto Carlo Mosca - si fonda sulla pluralità
di organizzazioni sindacali dirette e rappresentate da personale di polizia in
servizio o in quiescenza, organizzazioni che tutelano gli interessi degli
operatori di polizia senza interferire nella direzione dei servizi o nei
compiti operativi».
La sindacalizzazione
nella Polizia di Stato italiana è oggi un fenomeno consolidato, che nato,
appunto, ufficialmente con la Legge 121/1981, ha esteso i diritti sindacali
agli agenti, prima vietati, trasformandoli in lavoratori con diritti.
L’Italia, che ha subito
procedure di infrazione da parte dell’Unione Europea, è, invece, molto, molto
indietro rispetto al percorso della sindacalizzazione dell’esercito e dei militari in generale, diffusa sostanzialmente in tutti i paesi europei.
Le sigle oggi sono
numerose, ma il sindacato storico e, almeno all’inizio quasi unitario delle
forze di polizia è sempre stato il Siulp, firmatario, con il Ministro dell’Interno
Oscar Luigi Scalfaro, del primo contratto nazionale delle forze di polizia,
siglato il 15 dicembre 1982.
Nel tempo il quadro si
è frammentato, ha preso forza il Sap (legato al mondo del centro destra, ma
anche a un “sindacalismo senza privilegi”), e dal Siulp si è avuta una
scissione negli anni Novanta, con la nascita del Silp-Cgil.
Pur se con percorsi
inevitabilmente autonomi (legati anche alla legislazione sul punto) è
inevitabile riconoscere che, ormai da circa trent’anni, il Siulp si riconosce ed è,
pur non del tutto formalmente, una federazione di categoria della Cisl.
Pur rimanendo un garantista
(ma bisogna sempre anche distinguere tra responsabilità penali e storture politico-sindacali)
leggere quanto avvenuto a Felice Romano, storico leader e segretario generale
del Siulp in queste settimane con le inchieste e i provvedimenti restrittivi
che lo riguardano mi ha messo enorme tristezza.
Ricordo, ormai dieci anni fa,
miei amici poliziotti, operativi sul campo, ma esponenti di altro sindacato (di
centro destra appunto), che mi sottolineavano: “Lo conosciamo tutti Felice
Romano, ha trasformato un glorioso sindacato, in un grande patronato, in cui ci
si iscrive per avere, non per forza illegittimamente, qualcosa in cambio”.
Proprio quella “grande famiglia”
che, con un’accezione, sinceramente piuttosto brutta, Romano descrive nelle
intercettazioni che sono state diffuse nell’ambito dell’inchiesta.
Mi auguro, anche se,
sinceramente ho parecchie perplessità, che Felice Romano, la moglie e la
dirigenza tutta del Siulp sappiano confutare legalmente le tesi accusatorie, ma
quello che emerge è comunque un quadro davvero grave, soprattutto per la
pervasiva collusione con il potere.
Un sindacato che si
sostituisce allo Stato, compie il processo inverso, in generale, ma ancor di
più nell’ambito delle forze di polizia, per cui è nato, con tanti sacrifici,
con tanta visione, schivando le pallottole dei terroristi di destra e di
sinistra e gli esplosivi della criminalità organizzata.
Anche le notizie di stampa che mi
parlano di un Siulp che, con azioni funamboliche, dribbla i provvedimenti
restrittivi comminati ai propri dirigenti, rappresentano un quadro, da un lato
di paradossale e possibile illegalità, dall’altro di profonda arroganza del
potere, dell’idea di impunibilità assoluta che io ho riscontrato, in molti
dirigenti della Cisl, in primis nella mia, ma anche in altrui vicende.
Proprio per questo, in tanti
e in tante, ci ritroveremo a Firenze, sabato 31 gennaio, per: “Rigenerare
democrazia”, a partire dalla crisi, direi “costituzionale” dei corpi intermedi,
a partire da una partecipazione falcidiata da logiche perverse e corrotte di
dominio.
Iscrivetevi, abbiate coraggio, venite a
Firenze, sulla strada per Fiesole e Barbiana: sarà un’assemblea aperta, in cui,
come diceva Pierre Carniti, “sognare da svegli” e, soprattutto, sulla scia di
Don Lorenzo Milani:“prendere parola”.
Tutte le informazioni, il programma e il link di iscrizione li trovate qui:
Ricorderò sempre, ormai diversi anni fa, quando raccontai a mio figlio Jacopo, mentre insieme, salivamo a piedi a Barbiana, attraverso i sentieri della Resistenza e della Costituzione, che, oltre alla scuola di Don Lorenzo, avrebbe visto una piscina.
Era piccolo e, allora, potevo usare immagini e metafore che oggi forse non apprezzerebbe così tanto.
Come avevo detto prima che a lui a centinaia, forse migliaia di sindacalisti (si, perchè al Centro Studi Cisl di Firenze, dal 2018 in avanti, tra Fiesole e Barbiana, ho organizzato decine e decine di iniziative, mostre, spettacoli teatrali, convegni, riflessioni, dibattiti, corsi, camminate, su Don Lorenzo e la sua scuola) alla scuola c'è il mare.
C'è il mare, perchè c'erano decine e decine di bambine e bambini che il mare non lo avevano mai visto.
Che avevano paura dell'acqua e di nuotare.
Fu così, che utilizzando l'acqua di fonte proveniente dal Monte Giovi, Don Lorenzo e i suoi ragazzi, un po' spostata, dopo la Chiesa e la canonica, hanno costruito una piscina.
Mi dicono non sia stato facilissimo.
All'inizio hanno anche sbagliato le pendenze.
Ma dagli errori si impara, dalle cadute ci si rialza.
Spiegavo quindi a Jacopo, mentre salivamo insiemem che a Barbiana avrebbe visto tante cose, tra cui il Santo Scolaro, ma anche e soprattutto il mare.
Non si nuota di solito, se si ha paura dell'acqua, se si teme di perdere il respiro, si teme di perdere la Vita, da soli.
Si nuota insieme.
Insieme contro la paura.
Oserei dire anche contro la violenza.
Oltre la paura dell'altro, oltre la paura di se stessi, di non farcela, di non riuscire a guardare chi si ha di fronte, a partire dalla sue ferite, ma anche dalle sue feritoie, da una luce che, a volte, può anche abbagliare, bruciare.
Imparare a nuotare, insieme.
Questa è la piscina, il mare, l'oceano di Barbiana, come, prima di me, ha scritto una rivista che oggi purtroppo non c'è più e che si chiamava, non a caso, Il Margine.
Per questo bisogna continuare a salire (e poi, pieni zeppi di Speranza a scendere) rispetto a Barbiana.
Bisogna continuare a sfidare la paura di questo tempo infame, buio.
Nella piscina, a un certo punto, ho visto le fotografie e un filmato, non si faceva che ridere e scherzare, altro che Don Milani serioso.
Don Lorenzo guardava e sorrideva, già gravemente ammalato.
A Barbiana, alla piscina della scuola, con la Fim Cisl e Paolo Landi, allievo di Don Lorenzo. Il fotografo è Jacopo.
Oltre Barbiana, se si hanno ancora gambe, si può salire ancora, tra i pascoli di montagna del Monte Giovi.
Si può respirare sapere e libertà.
Si può avere sete di Giustizia.Insieme.
Che poi è l'etimologia della parola, dell'essere Sindacato.
Quello vero, quello che ti inonda di giustizia e ti fa superare la paura, ogni paura.
Proprio come la piscina, il mare, l'oceano della collina di Barbiana.
Bambine e bambine che sconfiggono insieme, e in ogni tempo, anche il nostro, la paura.
Istante immenso di Speranza condivisa.
Ci vediamo a Firenze, in cammino tra Fiesole e Barbiana, sabato 31 gennaio, dalle 10 alle 17, proprio come diceva Pierre Carniti:"Sognando da svegli", proprio come diceva Don Lorenzo: "Prendendo Parola".
Ringrazio il mio amico Gianni Alioti per la segnalazione
dell'intervista, pubblicata il 20 dicembre scorso dal quotidiano Il
Manifesto, ad Angela Mendes, figlia di Chico,
il sindacalista seringueiro amico degli alberi, ucciso dalla
mafia dei latifondisti estrattivisti, ovviamente con la complicità
delle istituzioni brasiliane, il 22 dicembre del
1988.
Cresciuto con la voce ispirata di Augusto Daolio in "Ricordati
di Chico", ho sempre saputo, fin da piccolo, chi sia stato Chico
Mendes, l'ho sempre ammirato con tutto me stesso, ben prima di occuparmi
direttamente di sindacato.
Poi ho scoperto anche la bella canzone Chico Mendes dei Gang,
contenuta in un album capolavoro come: "Le radici e le ali" e,
ovviamente, divorato il libro di Gianni : "Chico Mendes. Un
sindacalista a difesa della natura", pubblicato da Edizioni
Lavoro.
Su Chico Mendes ho scritto anche io, varie volte e, in particolare, a
trent'anni dalla morte, su Conquiste del Lavoro, il quotidiano
della Cisl (quando mi ci facevano ancora scrivere) e su C3dem, il
portale Costituzione, Concilio, Cittadinanza.
L'attualità di Chico Mendes è spiegata, perfettamente,, nella
sua bella intervista dalla figlia Angela, dal Brasile, dall'Amazzonia, dopo il
totale fallimento della Cop30 di Belem.
Molto più vicino a me ho scoperto un sindacato (si, lo
voglio dire, una federazione di categoria della Cisl) che,
anche durante alcuni direttivi, non smette, con i propri delegati e le proprie
delegate, di abbracciare gli alberi.
Se non è il rito di un giorno, si tratta di un seme, giovane, di
futuro, proprio di quelli di cui ci parla Angela Mendes.
Non perdiamo la Fede.
Crediamoci ancora, ritroviamoci, non solo in teoria, ma nell'azione quotidiana, di ogni
istante, nelle parole concrete di Angela Maria Freitosa Mendes....
Francesco Lauria
Sara Segantin (BELEM)
Brasile Il 22 dicembre di 37 anni fa veniva ucciso Chico Mendes, la figlia
Ângela ne ha raccolto l’eredità continuando la lotta per la giustizia
socio-ambientale dei popoli dell’Amazzoni
Ângela Maria Freitosa Mendes aveva diciotto anni quando suo padre fu
assassinato. Era il 22 dicembre 1988 e Francisco Alves Mendes Filho, noto al
mondo come Chico Mendes, venne ucciso a sangue freddo nella sua casa, a Xapuri,
da Darci Alves da Silva, figlio di un bovaro locale. Chico, seringuero –
raccoglitore di gomma – e attivista ambientale, è l’icona dei martiri
dell’Amazzonia. Ângela continua la lotta del padre, con gli empates, barriere
umane contro il disboscamento, e tramite il Comitato Chico Mendes, con cui
lavora per la giustizia socio-ambientale tra pressione politica, iniziative
culturali e formazione di giovani leader della foresta.
A quasi quarant’anni dall’assassinio di Chico Mendes, cosa resta della sua
eredità?
Mio padre lottò per il diritto al territorio e all’educazione; diritti
basilari ai quali chi vive nella foresta e nelle periferie non ha accesso. Quel
che riuscì a fare Chico è la prova che possiamo ottenere questi diritti solo
con un lavoro collettivo. Tutta la sua vita parla di collettività: non è
possibile avanzare come società se non coltiviamo una spirito di unione, perché
viviamo nella stessa casa, condividiamo la stessa casa, respiriamo la stessa
aria.
Come iniziò la lotta di Chico? Qual era il cuore del conflitto in
Amazzonia?
Lui era un seringueiro, un raccoglitore di lattice dagli alberi di caucciù.
I seringueiros vivevano nella foresta da generazioni, il loro stile di vita si
ispirava a quello dei popoli indigeni. Mentre il governo imponeva
un’organizzazione del territorio fatta di lotti e linee rette, estranea alla
realtà amazzonica, i seringueiros seguivano il tracciato delle estradas de
seringa, i sentieri della gomma, che non sono diritti, si distribuiscono
organicamente nella foresta, come i corsi d’acqua. Era il modello che gli
indigeni già adottavano per la demarcazione delle terre. I fazendeiros –
allevatori e latifondisti volevano trasformare la foresta in pascoli di
bestiame, spesso con incentivi statali, così bruciavano tutto e uccidevano chi
si opponeva. Per reagire, i seringueiros organizzarono assemblee, coinvolsero i
popoli indigeni, ascoltarono le loro esperienze e visitarono le loro terre. Nel
1987, Chico e il leader indigeno Ailton Krenak stabilirono l’Alleanza dei
popoli della Foresta, per una lotta unificata per il diritto ai territori. Fu
incredibile: indigeni e seringueiros erano sempre stati messi gli uni contro
gli altri. Superare questo dolore – che allora sanguinava ancora – fu una
grande vittoria collettiva.
Da quel processo nasce l’idea rivoluzionaria delle riserve estrattiviste
(aree forestale legalmente protette concesse alle popolazioni tradizionali). Di
cosa si tratta?
È un’idea di conservazione che permette alle persone di vivere dentro il
territorio. Fino ad allora c’era o il disboscamento o qualche area di
protezione integrale e le persone da un giorno all’altro perdevano il diritto
di svolgere attività lavorative o culturali nella propria casa. Chico e i suoi
compagni nel 1985 organizzarono a Brasilia il primo incontro nazionale dei
seringueiros, 130 raccoglitori di gomma vennero da Acre, Rondônia, Amazonas e
Pará e lì nacque il concetto di ‘riserva estrattivista’, per proteggere sia il
territorio sia le persone.
Quando furono istituite le prime riserve?
Le prime quattro nel 1990, l’ultimo giorno di mandato del presidente
Sarney, due anni dopo l’assassinio di mio padre. Lui lottò, versò sangue, diede
la vita, ma non riuscì a vederle nascere – sapeva che stava lottando per il
futuro. Oggi abbiamo 96 riserve estrattiviste sotto gestione federale e quasi
50 gestite da governi statali e municipali. Ci sono le riserve forestali e
quelle marine, perché sono inclusi anche i territori del Cerrado, le acque e i
mangrovieti.
Le riserve estrattiviste hanno ancora un senso?
Così come le terre indigene, sono una barriera contro il disboscamento
incontrollato che continua ad avanzare. Nello stato dell’Acre c’è la seconda
più grande riserva estrattivista del Brasile: la Chico Mendes, quasi un milione
di ettari. Si trova nella regione più deforestata dell’Acre, sotto pressione
dell’agrobusiness e dei fazendeiros: sulla mappa è un punto verde circondato da
terra bruciata. Questo è un modello che tutela la foresta e ha ispirato la
creazione delle foreste nazionali e di progetti di insediamento che mettono al
centro la conservazione e l’agroecologia.
Perché in Amazzonia il riconoscimento territoriale è cruciale?
I popoli originari e le comunità proteggono l’Amazzonia, ma i fazendeiros
li cacciano e uccidono. Il riconoscimento legale garantisce il diritto di
restare a chi già viveva lì, magari tagliando il lattice della gomma o
raccogliendo le castagne. È uno strumento necessario, anche se purtroppo non
sufficiente.
Quali altri progetti porta avanti?
Il Progetto Seringueiro ha alfabetizzato circa 18.000 persone dentro la
foresta, in un vuoto lasciato dallo Stato verso persone invisibili. Sapere vuol
dire uscire dalla schiavitù.
Giovani e donne sono al centro della vostra azione. Perché?
Il Brasile è al secondo posto per numero di attivisti uccisi; omertà e
impunità – rafforzati dall’ultimo governo di estrema destra – continuano a
mietere vittime. I giovani e le donne sono al centro perché contribuiscono
maggiormente alla protezione della foresta ma sono anche i più colpiti – dalla
crisi climatica e dalla violenza.
Suo padre tre mesi prima di morire scrisse una «Lettera ai Giovani del
Futuro», incitandoli a proteggere la vita e la foresta e a non arrendersi.
La «Lettera ai Giovani del Futuro» ci muove nel comitato e nel mondo,
perché senza una gioventù impegnata non abbiamo prospettiva di futuro. Abbiamo
bisogno di rinnovare le alleanze, il fare collettivo se vogliamo affrontare un
capitalismo che è sempre più selvaggio, forte, con potere, e che tenta di
metterci in competizione e di individualizzarci. La nostra forza è l’unione,
Chico lo ricordava sempre.
Il movimento “Jovens do Futuro” nasce da lì?
Chico nella lettera convoca la generazione attuale a dare avvio a un’ondata
rivoluzionaria. Jovens do Futuro lavora con educazione, comunicazione, cultura
e artivismo. È guidato da giovani ed è destinato ai giovani dell’Acre
provenienti da contesti marginalizzati, sia urbani che della foresta. Nel 2020
abbiamo organizzato un festival, con giovani di più di 20 Paesi. Nonostante
tutto, i giovani di oggi credono profondamente nel loro ruolo e si stanno
mobilitando. Questa è la nostra forza.